Lorenzo Chinnici “Angeli a Calatagèron”
Nell’autunno del 1608 Michelangelo Merisi da Caravaggio, uomo in fuga dall’omicidio romano e dalle prigioni maltesi, arrivò in Sicilia. Durante la permanenza sull’isola, il pittore rivoluzionò lo stile pittorico e la maniera di dipingere, ancorati al tardo-manierismo; quest’ultimo caratterizzato da una cura verso la perfezione del disegno e l’utilizzo di colori tenui nelle tonalità pastello.
Si potrebbe pensare che l’arte moderna in Sicilia ha il suo inizio proprio con il suo arrivo. Lo stile dell’ultimo Caravaggio, infatti, è ancora più drammatico, le tele siciliane sono cariche di pathos, la pennellata è violenta, il divino scompare totalmente ed il contrasto tra la luce e l’ombra è netto, così come il confine labile tra la vita e la morte, che si tramuta in spazi neri, vuoti, bui al di sopra dei personaggi.
In Sicilia soggiornò in diverse città ed è ancora possibile ammirare capolavori come il Seppellimento di Santa Lucia a Siracusa, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei Pastori a Messina. Un numero esiguo se pensiamo che le fonti testimoniano molto altri quadri, dipinti per commissioni pubbliche e private. Purtroppo alcune opere messinesi sono andati disperse, altre distrutte dal terremoto del 1908; storia ancora più drammatica quella della Natività, conservata presso l’Oratorio di San Lorenzo di Palermo, trafugata dalla mafia nel 1969.
Proprio qui, nella città di Caltagirone, non abbiamo la presenza di un’opera ma di un manoscritto, datato ante 1710 e custodito nella Biblioteca Comunale, che racconta un curioso episodio: Caravaggio, entrato nella chiesa di Santa Maria di Gesù, ammirando la statua della Madonna della Catena, scolpita da Antonello Gagini, avrebbe esclamato: “Chi la vuol più bella vada al Cielo”.
In Sicilia, più che mai, Caravaggio imprime nelle tele la sua anima, la sua brama di salvezza e questo influenzerà non solo i pittori del ‘600, come il siracusano Minniti ed il messinese Rodriguez, ma anche, in maniera concettuale, i contemporanei come il maestro Chinnici.
Le sue opere risentono di questo trasporto, di questo assoluto abbandono alla vita intrisa di pathos, dolori ed emozioni. Il divino diventa espressione dell’umano, unico spiraglio dove lo spirituale è possibile. Traspare il dolore, nelle opere di Lorenzo, si nota la stessa religiosità umanizzata e umile del lombardo, che in Sicilia si concretizza con la raffigurazione francescana della Madonna dell’Umiltà, da humus, distesa sulla nuda terra.
“Umano troppo umano” Chinnici, così come il Merisi, entrambi trascinati da una forza irrazionale
dove l’arte diventa creazione primordiale, attorno a cui tutto ruota. Nelle sue opere tra colori terrosi e luminosi come il grano, esprime il dramma dell’esistenza, sublimato, anche questa volta, dalla luce salvifica.
Gli uomini che ritrae sono di intensa umanità, di potente naturalismo perché come Caravaggio mette in scena il reale, la verità filtrata dai suoi occhi, intrisa del suo vissuto. Il pittore si fa così portavoce degli ultimi, dei lavoratori, della gente comune, quella che fatica, che spera, che vive in una terra piena di contraddizioni. Pescatori, contadini, madri che si muovono nelle acque antiche del Mediterraneo e nei paesaggi aridi e scarni, ma fertili, della Sicilia. Sicilia d’altri tempi, terra del mito e della luce, terra sognata ed evocata, raccontata come se fosse una favola. Terra che richiama sempre ed inesorabilmente a sé, come una madre che non abbandona mai i suoi figli.
Valentina Certo